Farsi coraggio. Forme della consolazione nel mondo antico

Professoressa Stucchi, la sua analisi si concentra su un “genere letterario codificato, che si avvaleva di argomentazioni ricorrenti”
Quale ragione sottintende questa precisazione forse solo apparentemente peregrina e superflua?

Noi, oggi, essendo i discendenti del Romanticismo, abbiamo, travisando e banalizzando, fatto un totem della “spontaneità”, per cui non accettiamo più nemmeno il fatto che la letteratura sia codificata in generi precisi e normata. Ma il mondo classico era molto diverso: ogni espessione letteraria, anche, quindi, il genere consolatorio, era soggetto a regole e c’erano precise argomentazioni di cui fare uso. Il che, fra l’altro, metteva anche al riparo da quella sconvolgente banalità, che a volte rasenta la gaffe o il cattivo gusto, di cui, spesso, oggi sono intrise certe espressioni di cordoglio, spontanee, certo, ma terribilmente maldestre: personalmente, ricordo un “VIVISSIME condoglianze” da brivido! Un ossimoro in piena regola. E allora, tanto vale riscoprire la saggezza degli antichi.

Ovidio, Orazio e Lucrezio ci ricordano che “la morte e la perdita di una persona amata sono esperienze, per quanto dolorosissime, non peculiarmente riservate a un solo uomo, ma toccano l’intera umanità”
La pandemia da Covid-19, tutt’ora in corso, ha provocato migliaia di morti. Ebbene, il pensiero degli antichi può offrirci stimoli alla riflessione?

Può essere antropologicamente interessante, e, perché no, anche umanamente e spiritualmente illuminante vedere come una civiltà che non conosceva la speranza di una vita ultraterrerna e di una ricompensa per i buoni paragonabili a quelle prospettate dalla religione cristiana, riflettesse sull’esperienza non tanto della morte, ma della perdita, della morte vista dalla parte di chi resta, specialmente in un contesto in cui, a tutti i livelli, sia per l’ultimo dei coloni, che per chi abitava nel Palazzo imperiale, la vita era caratterizzata da una grande precarietà, e, mi viene da dire, da una grande casualità. Forse noi ci siamo dimenticati di tutto questo, negli ultimi decenni, perché viviamo in un contesto in cui, fortunatamente!, la guerra non c’è più, la mortalità infantile è stata debellata, la scienza medica ha allungato la vita di tutti (mentre ancora nella generazione dei nostri nonni e bisnonni era frequente che, in una famiglia con otto o nove figli, due o tre non raggiungessero l’età adulta). In fondo, l’ultima grande pandemia che abbiamo conosciuto prima del CoVid 19 risale a un secolo fa: mi riferisco all’influenza “Spagnola”. Ma, in generale, noi abbiamo “sterilizzato” l’esperienza della morte, ricacciandola ai margini della nostra vita, e cercando, anzi, di cacciarla dalla nostra esistenza, mentre nel mondo antico .- e ancora sino ai primi decenni del secolo scorso – essa, compreso lo “scandalo” del moriri giovani, era molto molto comune.

“Morire, in fondo, è un bene, perché ci libera dai mali; meglio morire piuttosto che soffrire, giorno dopo giorno, pene indicibili”; “Alla lunga il tempo è il medico migliore, perché cancella, o almeno lenisce, tutti i mali”; “chi è morto, paradossalmente, è al riparo da ogni dolore; se ha perso il bene della luce del sole, ha perso, però, anche la possibilità di ammalarsi, di piangere, di patire, di essere infelice”
Queste considerazioni consolatorie ascrivibili agli antichi, soventemente, si porgono ancora oggi a chi attende le esequie di un proprio caro. Ravvede tuttavia una distanza con il nostro modo d’intendere e vivere il lutto?

La distanza con il nostro modo di intendere e vivere il lutto è evidente, perché, da un lato, noi tendiamo a non pensare al lutto, a rimuoverlo: e quando proprio lo dobbiamo affrontare, e siamo costretti a guardare in faccia l’esperienza della perdita, nel nostro mondo, oggi, possiamo, talvolta, avere le consolazioni della religione, il che non vale per tutti, ovviamente; oppure possiamo, ancora una volta, rimuovere il problema, negarlo, rifiutare di affrontarlo, o affrontarlo da un punto di vista prettamente emotivo ed emozionale. Sicuramente l’esperienza della saggezza antica, che cerca di analizzare e smontare – passatemi l’espressione – l’afflizione e il lutto con gli sturumenti della logica, è molto lontana da noi.

Diogene il Cinico con i suoi strali contro la strabordante angoscia per la sorte del proprio corpo può essere interpretato come una sentinella dell’attuale crescente ricorso alla cremazione?
Non so se Diogene possa essere definito una sentinella dell’attuale, crescente favore di cui gode la cremazione, che diventa, nelle nostre città e nei cimiteri, sempre più affollati, anche una soluzione che risponde a questo tipo di esigenza molto pratica, oltre a essere una scelta che definirei igienica. Nel mondo greco e romano, comunque, la cremazione era la norma (tanto che, per esempio, crea scalpore chi la rifiuta, come Nerone che vuole imbalsamare il corpo di Poppea). In realtà, un altro alfiere della cremazione, in quanto risposta alla necessità di ovviare all’ “orrore della decomposizione” si trova in un tempo molto più recente, con Paolo Gorini, il “mago di Lodi”, alfiere della pietrificazione prima, e poi della cremazione (che però, in quegli anni, nella seconda metà dell’Ottocento, aveva un significato anche polemico nei confronti della Chiesa ed era una scelta che rimarcava una adesione al positivismo imperante).

Lei compie un’accurata scelta antologica. Ci regala un pensiero a suo giudizio particolarmente balsamico?
Un pensiero in fondo consolante, è, paradossalmente, quello di Seneca, il quale arriva a riflettere sul fatto che può essere persino rasserenante immaginare le nostre pene, i nostri tormenti, i nostri dolori, stemperarsi nella deriva di tutto l’universo, sino a confondersi e annullarsi nella ekpyrosis, la conflagrazione universale in cui, secondo la dottrina stoica, il mondo verrà annichilito: suave est cum universo rapi, dice Seneca (che, forse, doveva, come diremmo oggi, essere sottoposto a pressioni non da poco, per esprimersi in questi termini). Se poi pensiamo alla consolazione in chiave cristiana, molto bello è il passaggio in cui Sant’Agostino reagisce alla perdita del suo amico amatissimo pensando, che, in fondo, egli si trova “nel seno di Abramo”; o meglio, se il Signore l’ha accolto accanto a sé, e, in un certo senso, il Signore è vicino a ognuno di noi, e accoglie in sé tutto il creato, allora, in qualche modo, misteriosamente, anche chi abbiamo perduto non è poi così lontano, ma è ancora accanto a noi.

Silvia Stucchi è dottore di ricerca in Filologia e Letteratura latina e insegna Lingua latina e Letteratura latina presso l’Università Cattolica di Milano e nei licei. Membro scientifico della Société Internationale des Amis des Cicéron e della Société Internationale d’Ètudes Néroniennes, svolge attività di giornalista pubblicista su varie testate; oltre che di numerosi articoli, è autrice dei volumi: Antiche consolazioni (2007); Osservazioni sulla ricezione di Petronio nella Francia del XVII secolo: il caso Nodot (2010); Apologia. Apuleio Platonici pro se de magia (2016); Seneca. Lettera sul suicidio (2018); Plauto. La gomena (2020). E per Ares, Come il latino ci salva la vita (2020).

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